Essere realisti: istruzioni per l'uso
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Nel dibattito pubblico spesso si sentono richiami ad adottare un maggiore realismo, a volte rivolti alle decisioni di alcuni politici, altre volte diretti invece ai cittadini stessi. Ma che cosa vuol dire essere realisti? In un’accezione generale essere realisti significa evitare di votarsi ciecamente a ideali irraggiungibili. Con un significato più tecnico, invece, per realismo si intende un modo disincantato di guardare la politica come essa è, non come dovrebbe essere.
Antiutopismo: elogio del corso d’azione (cioè come realizzare gli ideali)
Il primo senso di realismo può essere definito anti-utopismo ed è più vicino all’uso comune di questo concetto. Essere realisti significa scegliere come agire non soltanto in base a uno scopo finale (ad esempio una società perfettamente giusta), ma interrogandosi su quale corso d’azione intraprendere. Un corso d’azione è costituito, appunto, non solo dal valore dello stato finale, ma anche dai mezzi che richiede, da eventuali conseguenze che comporta e dalla probabilità di raggiungerlo.
Focalizzarsi sull’intero corso d’azione è fondamentale se vogliamo realizzare i nostri ideali. Alcuni filosofi, come Platone o più recentemente Gerald Cohen, ritengono queste ulteriori considerazioni superflue, perché sono interessati a chiarire in che cosa consista la giustizia. Un realista, al contrario, ritiene che la contemplazione dell’ideale di giustizia sia inutile: ciò che conta è rendere la società in cui viviamo di fatto più giusta. Se l’attenzione all’ideale produce un miglioramento del reale è giustificata, altrimenti no. Il punto è realizzare gli ideali, non contemplarli.
Per questo è importante considerare i corsi d’azione, altrimenti si rischia di frustrare la realizzazione dei nostri ideali. Sottovalutare anche solo uno dei tre elementi del corso d’azione – lo stato finale, i mezzi e la probabilità di successo – ci impedisce di trasformare il reale secondo i nostri desideri. Esistono tre tipi di mancanza di realismo.
Il primo è quello del fanatico, che non si preoccupa del costo dei mezzi richiesti dal suo ideale e incorre in sacrifici inaccettabili pur di realizzarlo. Egli è così abbagliato dal proprio obiettivo che è spinto a ignorare qualunque altro interesse. Un esempio storico di tale comportamento, per alcuni, è Robespierre, che pur di mettere al sicuro la sua autorità sulle menti dei cittadini, “era disposto a passare sul cadavere dei suoi avversari”.
Anche il comportamento del santo manca di realismo. Un santo è qualcuno che si concentra solamente sulla moralità dei mezzi, ignorando i benefici di eventuali fini raggiungibili soltanto con mezzi “proibiti”. Si pensi all’uso della violenza. Max Weber in proposito fa riferimento all’etica di Gesù e di San Francesco, criticando l’idea che non si debba mai usare la forza nemmeno per resistere al male. Il politico, secondo Weber, deve seguire un comandamento diametralmente opposto: deve resistere al male con la forza, oppure ritenersi responsabile della sua diffusione. Simile è l’intenzione di Niccolò Machiavelli, troppo spesso banalizzato con la sentenza “il fine giustifica i mezzi”. L'argomento machiavelliano non è che il politico possa usare la violenza a cuor leggero, ma che non debba escluderne l’uso a priori.
Un terzo esempio di carenza di realismo è invece quello dell’agente naïve. In questo caso ad essere ignorata è la probabilità di successo. Considerarla non significa rinunciare a essere ambiziosi. Significa, più semplicemente, che dobbiamo scontare il valore del fini per la probabilità di raggiungerli. Si pensi alla riforma della sanità di Obama: pur essendo molto meno “ideale” dei modelli europei, doveva essere realizzata nel contesto ben più difficile di un Congresso a guida repubblicana radicalmente contrario alla sanità pubblica. Idee più ambiziose avrebbero avuto maggiori probabilità di fallimento. E fallire, in politica, equivale alla riconferma dello status quo.
Ragionare di corsi d’azione induce un radicale cambiamento di prospettiva nel pensiero filosofico. Sposta l'attenzione dallo studio della ragione e dei desideri umani allo studio della realtà esterna. Anche se il valore del fine fosse interamente determinato dalla volontà umana, la probabilità di realizzare il fine, i mezzi richiesti e le conseguenze collaterali dipenderebbero dalla realtà esterna e potrebbero significativamente alterare la desiderabilità del fine stesso. Inoltre, tutti questi elementi variano a seconda del contesto storico. In un certo contesto uno stato finale può essere desiderabile, perché realizzabile senza costi e conseguenze drammatici. In un altro contesto, lo stesso ideale può invece non essere desiderabile. Per citare Bernard Williams, “tentare di realizzare i valori e il modello di vita buona dell’Atene classica nella Francia repubblicana, avrebbe avuto costi inaccettabili”.
Anti-idealismo: l’importanza del conflitto (a prescindere dalle proprie idee)
Nel suo secondo senso, il realismo può essere definito come anti-idealismo, ed è più specificamente intrecciato alla discussione filosofica, sia classica che contemporanea. È realista, in questa seconda accezione, considerare la politica come a una sfera particolare dell’agire umano, caratterizzata da una specifica concezione del conflitto tipica del realismo politico.
Il conflitto ha origine da due elementi: da un lato l’incompatibilità tra idee, interessi e visioni del mondo di individui diversi; dall’altro l’intenzione di un attore di imporre la propria volontà agli altri. Senza questa disposizione a imporsi, anche idee diverse potrebbero facilmente convivere senza tensioni. Senza diversità di idee, invece, la tendenza a imporsi sugli altri rimarrebbe inespressa: tutti sarebbero d’accordo.Questa concezione di conflitto presenta caratteristiche interessanti, di cui un attore politico realista dovrebbe necessariamente tenere conto.
La prima è la sua unilateralità: è sufficiente che io voglia imporre la mia volontà a qualcuno, che questo si troverà preso – volente o nolente – in una relazione di conflitto. Non importa quanto quest’altra persona voglia ragionare di quale convinzione sia “vera”, o voglia trovare un punto di mediazione. Egli dovrà difendersi, o accettare l’imposizione.
La seconda caratteristica interessante del conflitto è il suo potenziale violento. Un conflitto minaccia sempre di scatenare una lotta. Il punto cruciale è che tale violenza è il piano ultimo dello scontro. Immaginiamo di decidere chi deve mangiare una mela giocando a carte, ovvero attraverso una procedura pacifica. Anche se uno vince a carte, l’altro può invalidare l’accordo e appropriarsene con la forza. A questo punto l’aggredito potrà solo difendersi con la forza o appellarsi a qualcuno che lo faccia in sua vece (lo Stato, per esempio).
Qui c’è però una radicale – e importante – asimmetria. Se il passaggio dal gioco al conflitto è unilaterale, il passaggio contrario dal conflitto a una procedura di decisione, richiede invece l’accordo di entrambe le parti (oppure l’intervento di una forza maggiore esterna, quindi siamo sempre all’interno del conflitto). Immaginiamo una guerra. Una risoluzione pacifica è possibile solo se entrambi i contendenti decidono di cessarla, oppure se interviene una forza maggiore (esterna) a imporne la fine.
Questo ragionamento mostra anche l’ultima caratteristica del conflitto: la neutralità al contenuto. Il conflitto non è determinato interamente dalla diversità di idee, ma anche dalla volontà di imporle. Per questo, enfatizzare la forza della ragione nella risoluzione dei conflitti può portare a pericolosi fallimenti. Dirsi realisti in questo secondo senso significa non sottovalutare mai quanto la presenza inestricabile del conflitto vincoli quali scelte si devono prendere.